Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog
Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

martedì 2 giugno 2015

INVANO SI PREGA LA TERRA



Quello che il cielo ha da dire alla terra si sente, ma nessuno
sa ripeterlo. Non c'è chi possa riferire a un altro la
bestemmia del tuono, le bugie della pioggia alle zone aride o
il crepitio sconcio del fulmine nell'aria grassa di nubi.
Quello che il cielo sa dire alla terra non ha testimoni, solo
complici. Era esattamente così che lui si sentiva quella sera,
mentre appoggiato allo stipite di un portone osservava la furia
di quello che sembrava il temporale più violento mai
scoppiato."
Non poteva fare altro che rimanere lì ad aspettare. Si trattava
di una scelta obbligata ma, in qualche modo impenetrabile alla
ragione, sentiva che quella condizione d’attesa era il frutto
non del caso, bensì della necessità. L’inerzia del momento,
sospendendo il tempo e la vita che rimaneva ancora da fare
oltre la tempesta, era un intervallo della sua esistenza, un
vuoto che occorreva colmare. Solitamente a colmare quel vuoto
sopraggiungono i pensieri. E Andrea, stretto nel suo cappotto,
ne fu travolto.

Il tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono. Qualcosa aveva rievocato in lui ricordi sopiti.
Poiché il temporale non accennava a smettere si appoggiò con la
schiena al portone, cercando riparo sotto l’arco di marmo che
lo sovrastava. Mentre stringeva i pugni dentro le tasche del
cappotto si guardava intorno in attesa di un evento previsto,
qualcosa di preannunciato che avrebbe dovuto assomigliare a una
vibrazione del suolo, a una scossa, a un cedimento della crosta
terrestre. Si strinse nelle spalle, abbassò la testa e cominciò
a guardare a terra. Gli occhi si muovevano alla ricerca di una
crepa, di un segno della forza indistruttibile della natura,
risultato dello scontro di volontà indomabili. Ma la terra era
ferma e il pavimento era intatto. Intorno solo la pioggia.
Il tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono. Tolse la mano destra dalla tasca e guardò
l’ora: erano le sette di sera eppure era già buio. L’oscurità
si stava prendendo gioco della sua inquietudine. Intanto la
pioggia scendeva giù così fitta da rendere opaca la luce dei
pochi lampioni lungo la strada; ogni goccia batteva a terra con
violenza, come a voler colpire le strade, le case e tutto ciò
che l’artificio degli uomini aveva costruito, togliendo alla
natura lo spazio che gli era sempre appartenuto. Fulmini e
tuoni rendevano l’aria gravida di un’energia che sembrava
presagire un conflitto tra forze opposte. Le strade deserte, la
cui solitudine era violata soltanto dal passaggio di poche
macchine, avevano la terribile calma di un campo di battaglia
prima del combattimento.

Da quando il terremoto aveva sconvolto la sua esistenza ogni
manifestazione improvvisa della natura rievocava in lui rumori,
volti e macerie. Andrea sentiva addosso il peso di una potenza
incontrastabile che acuiva il suo senso di inadeguatezza. E
sotto quel portone si sentì imprigionato da una notte che aveva
profanato il suo inconscio. L’ostinata razionalità con cui
l’acqua tornava alla terra, rompendo il silenzio con un ritmo
insolito, aveva ordinato i suoi pensieri prima aggrovigliati,
mettendoli in fila, trasformandoli in figure e suoni. Il tempo
era diventato viva presenza. Non servì chiudere gli occhi
perché il ricordo, ruscello tra le rocce, sgorgò
spontaneamente: era la notte del 6 aprile 2009, quando Andrea
sperimentò la sconfitta ancestrale degli uomini, la loro
impotenza di fronte ai misteri, ai tumulti e alle ribellioni
della Terra. Terra che qualcuno chiama madre ma che madre
quella notte non fu.

All'improvviso un fulmine cadde a poche centinaia di metri da
lui e per un attimo il suolo parve tremare. La paura gli
spalancò gli occhi. Le gambe cedettero e tentò di aggrapparsi
allo stipite del portone. Continuava a guardare a terra in
attesa di una crepa, mentre il ruscello riprendeva a scorrere
scavando nella sua dolorosa memoria.

Il grido della terra può essere soltanto udito e invano si
prega affinché un dio accorra a placarlo. Non c’è lotta né
confronto alla pari. L’unica possibilità è affidarsi a
quell'istinto primordiale insito nella natura dell’uomo:
l’istinto alla sopravvivenza.

Un altro tuono, ancora l’urlo della terra.
La scossa, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono.
Occhi aperti, pugni stretti. Scorreva il fiume del ricordo: la
casa dello studente che crollava, il letto che tremava,
l’armadio che si spalancava e i vestiti sparsi a terra, i libri
che cadevano dalle mensole, le mensole che cadevano dai muri,
sotto la scrivania paura, incertezza, poi la crepa, una
voragine sul muro esterno, una via d’uscita, il salto sul
davanzale della finestra, arrampicarsi sulle macerie della
propria casa, arrampicarsi sul cemento infame. La fuga, il
terrore, le persone in strada incredule. In pigiama, una nebbia
avvolgente di fumo e polvere.
Andrea immobile a guardare la sua casa che crollava.

Andrea immobile a guardare la pioggia che cadeva. Suono, tuono,
furia, scossa.

Sopravvivere a un evento catastrofico significa entrare a
contatto con l’imponderabile dimensione della fortuna. Eppure,
ben presto, alla consapevolezza della casualità della propria
salvezza subentra un fardello che piega le spalle e offende la
coscienza, un fardello originato da una mela rubata e chiamato
senso di colpa. Erano passati sei anni ma per Andrea ogni
anniversario non faceva che accrescere la convinzione di una
salvezza profondamente immeritata perché frutto del caso, di
una forza che gioca a dadi con i destini degli uomini. La terra
non perdona, la terra offende, la terra si riprende quello che
è suo. Anche il cemento. Cenere alla cenere.
«Andrea!» si sentì chiamare, «Andrea!». Una voce amica lo
distolse da quei pensieri invadenti. Era Laura, la sua
psicoterapeuta. Lo scrutava da sotto l’ombrello, in attesa di
una risposta.
«Stai bene? Scusami se ti ho fatto aspettare. Sembri
infreddolito».
«Non preoccuparti. Sono arrivato da poco.»
«Forza, entriamo. Non è il caso di rimanere qui fuori» disse
con un sorriso, guardando gli occhi di Andrea ancora fissi a
terra. Prese le chiavi dalla borsa e aprì il portone.
Varcata la soglia Laura accese la luce. Dopo aver superato una
piccola sala d’aspetto con poltroncine blu appoggiate al muro e
un tavolino trasparente al centro della stanza, entrarono nel
suo studio.
«Mi dispiace averti chiamato così all’improvviso. Ho sempre
paura di disturbarti» disse Andrea sinceramente dispiaciuto,
mentre si toglieva il cappotto bagnato. Lo piegò e lo appoggiò
sullo schienale della poltrona.
«Per me non è un problema. Ti ho sempre detto che puoi
chiamarmi ogni volta che ne hai bisogno. Sono qui per questo»
rispose Laura, sperando di cogliere un accenno di sollievo
negli occhi del suo paziente. «Ora siediti così parliamo un
po’».
Andrea raccolse il suo invito e si sedette sulla poltrona
davanti a quella della dottoressa. Non c’era una scrivania a
separarli, perché ogni formalità e distanza era stata superata
ormai da tempo. Iniziò a parlare mentre Laura appuntava su un
taccuino le sue osservazioni.
I loro incontri si svolgevano seguendo un rito che era quasi
sempre lo stesso e che si concludeva solitamente con la
somministrazione di nuovi medicinali. Ma quella sera Laura
aveva avvertito qualcosa di diverso, una sensazione di totale
spaesamento negli occhi di Andrea.
«Hai fatto l’esercizio che ti avevo dato?»
«Ci ho provato,» rispose Andrea «ma scrivere poesie non è da
tutti. Non credo di avere una grande vena poetica.»
«Il dolore è la più grande vena poetica. E’ da lì che nascono i
capolavori. Coraggio, fammi leggere.»
Andrea frugò tra le tasche e le porse un biglietto
stropicciato. Laura lesse tra sé “Guardi con occhi diversi /
Poi ritorni in quell’angolo oscuro / in cui giace il tuo te più
profondo / che forza non ha per guardare lontano.”
Ripiegò il biglietto e disse «Se non ti dispiace, vorrei
tenerlo. Credo che tu stia uscendo da sotto la scrivania.»
«Che vuoi dire?» chiese Andrea sorpreso.
«Che stai guarendo. E che possiamo farcela.»
Andrea non sapeva cosa dire ma la sua espressione tradiva tutta
la sua incredulità. Soltanto pochi minuti prima si era sentito
fragile e piccolo di fronte a una pioggia più violenta del
solito. La guarigione gli sembrava una meta ancora troppo
lontana.
«Non essere così scettico. Stai combattendo per un motivo e io
posso vedere miglioramenti che tu non vedi» lo rimproverò
Laura. Andrea non rispose.
«Prima a cosa stavi pensando?» gli chiese.
«Quando?».
«Mentre mi aspettavi davanti al portone. Avevi gli occhi
persi.»
«Non so a cosa pensavo ma non ero tranquillo. I temporali mi
angosciano.»
«Hai paura?»
Annuì, abbassando ancora una volta gli occhi.
«Guardi sempre a terra. Te ne rendi conto?». Laura voleva
scuoterlo.
Lui esitò a rispondere. Poi disse «La terra mi spaventa ma mi
attrae. Mi ha tolto tutto eppure non faccio altro che
guardarla. A volte ammiro la sua forza.»
«Allora potresti imparare qualcosa da lei.»
Andrea attese qualche secondo, come a voler riavvolgere i
pensieri. Alla fine alzò gli occhi «In realtà penso a mio
padre.»
«Che significa?».
«Mio padre è la mia radice, ciò che mi tiene ancorato alla
terra. Vorrei imparare da lui la sua capacità di reinventarsi
di fronte alle difficoltà e agli ostacoli della vita, la forza
che ha nel rialzarsi, nel lottare e nel riuscire a cambiare
strada, anche se costretto, senza timore del futuro o della
sorte avversa. Senza pentimenti, rimorsi, sensi di colpa.»
Per un attimo rimasero entrambi in silenzio. C’era come una
gioia imperfetta.
«Questa forza lui la chiama “fede”. Io non saprei quale nome
dargli. Eppure so che esiste.»
Raccolse il suo cappotto, salutò Laura e si incamminò verso
l’uscita.
Quello che la terra ha da dire al cielo si sente, ma nessuno sa ripeterlo.

BDA



mercoledì 18 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 3. Sala d'Aspetto

La Solitudine è una condizione dell’anima che prescinde dal tempo, dallo spazio e dalle relazioni interpersonali. E’ una scelta esistenziale, che trova realizzazione in qualsiasi contesto. Può nascondersi sotto l’apparenza di una socialità mista a condivisione, ma di fatto, tra le righe, sotto i sorrisi e le mani strette, è sempre presente, come una veste di seta leggera che protegge e copre il corpo, preservandolo dalle inquietudini della vita.
C’è chi la considera una forma di autodifesa dal mondo, dalle possibili sofferenze che scaturiscono dall'interazione con gli altri uomini e dallo spettro che ci portiamo dietro sin dai tempi del Paradiso Terrestre: lo spettro dell’abbandono. E allora il timore di essere abbandonati ci trasforma da vittime a carnefici: siamo noi ad abbandonare, per scacciare via quel fantasma orribile, per allontanare da noi la possibilità di rimanere soli, soli a noi stessi. E quanto male seminiamo, in questo sforzo autodistruttivo di preservazione da una presunta sofferenza. Per non sperimentare sulla nostra pelle quel male, lo spargiamo sulla terra, lasciando crescere piante marce e virali. Siamo più codardi di quanto vogliamo ammettere. E la solitudine è la condizione per eccellenza del codardo, colui che sfugge dalla varietà della vita per rifugiarsi nella costante, banale, sempre uguale quotidianità.
Non c’è ruolo più meschino di chi sceglie la via dell’inettitudine.
“Non ragionam di lor, ma guarda e passa”
Il coraggio è il portabandiera di chi lotta per la vita.

Pensava così tanto a qual era il modo giusto di vivere, che non si rendeva conto del tempo che passava..


Era un venerdì pomeriggio quando la madre di Emma le chiese di accompagnarla dal dottore. Dopo aver valutato analiticamente la gamma di scuse che avrebbe potuto imbastire, e non avendone trovata una accettabile (né dalla madre né dal suo buon senso), Emma acconsentì suo malgrado, poiché andare dal dottore era un impegno che avversava in modo particolare. E questa avversione aveva basi scientifiche, perché frutto di due riflessioni fondamentali:
1) la sala d’aspetto del dottore era quasi sempre animata da personaggi insoliti e straordinariamente sgarbati. Talmente insoliti e sgarbati da convincerla a formulare una teoria originale sul legame esistente tra la malattia e l’antipatia.
In poche parole, Emma credeva che tutti i malati fossero naturalmente propensi all'antipatia e che, viceversa, tutti gli antipatici fossero in qualche modo malati. Anzi, riteneva che la malattia più grave del secolo fosse proprio l’antipatia. E la sala d’aspetto del dottore era un microcosmo di malati di antipatia, un atomo di odio e irritazione, un accozzaglia di spiacevoli tipi umani: inspiegabilmente, infatti, quasi tutti gli abitanti del mondo della sala d’aspetto erano adirati con l’umanità intera, anche con l’innocua vecchietta seduta in fondo alla sala (c’è sempre un’innocua vecchietta seduta da qualche parte, una figura omerica: non vede, non sente e non dice), più interessata a leggere l’ultimo scoop sull'edizione ventura di Sanremo, che a occuparsi di quei seminatori di zizzania (sebbene forse la sua indifferenza fosse dovuta maggiormente a un certo difetto d’udito). Erano così incazzati a priori da provocare dispute su qualsiasi cosa: dal posto in cui pretendevano di sedersi, al giornale che pretendevano di leggere, alla visita che pretendevano di fare prima di tutti. Tutte pretese, a loro avviso, legittimate dalla loro appartenenza al Mondo dell’Antipatia.
Possedevano anche un linguaggio caratteristico, grazie al quale comunicavano tra loro, che si fondava esclusivamente su grugniti e suoni disarticolati, accompagnati da gesti di stizza fortemente teatrali, che suscitavano l’imbarazzo generale del pubblico della sala d’aspetto: unico esito possibile di uno spettacolo grottesco allestito da una compagnia di idioti;
2) dal dottore toccava con mano il concetto di attesa. Un concetto che, per tentare di razionalizzarlo, Emma aveva consumato fogli e giornate.

Che cos'è aspettare?
Attesa.
Un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un desiderio. Attendiamo per colmare una mancanza.
Mera necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio la notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono inesorabili a fagocitare un altro giro d’orologio. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita. Che illusione.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati. Forse per questo nelle sale d’aspetto le persone sono così impazienti.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.

Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò che accade mentre noi continuiamo ostinatamente ad aspettare.

sabato 14 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 2. Vivere

Amava vivere in quella casa, una villetta indipendente in un paese lontano dalla frenesia della città. Riconosceva come suo l'ambiente naturale in cui era immersa, trovando piacere e conforto nell'incessante canto degli uccelli che al mattino la svegliavano, iniziandola alla giornata con le loro armonie sempre varie, o nel lento strisciare del vento che muoveva le foglie voluminose del ciliegio.
Sin da piccola coglieva il significato nascosto in quella vita appartata, idilliaca, in cui la natura e l'amore della sua famiglia costituivano le solide fondamenta sopra le quali formare il suo spirito e la sua personalità.

Non avrebbe saputo immaginare un’esistenza diversa da quella, ma il futuro era per lei un grande calderone di incertezze e interrogativi.
Si svegliava ogni mattina con la convinzione fittizia che sarebbe stato sempre quello il suo unico risveglio.
Forse era paura, la sua.
Paura del mondo contaminato dalla falsità.

Conclusi gli anni della scuola media, fu costretta a proseguire i suoi studi in città. Ogni mattina, alle sette, partiva col padre per andare a scuola.
Ritratto di vita. Il profumo di caffè latte appena fatto, la madre che spalanca le persiane e i raggi del sole che inondano di luce ogni angolo della cameretta, disturbando i suoi occhi affaticati dal sonno. Comincia un altro giorno. Emma si alza, si veste, si lava e fa colazione. Suo padre è in macchina che la attende. Cartella in spalla e si parte. Dal finestrino il suo sguardo curioso osserva i paesaggi conosciuti: luci, colori, alberi, personaggi, sono sempre gli stessi, ma con un giorno in più da sommare alla vita. C’è sempre la stessa vecchietta che attende l’autobus sul ciglio della strada e c’è sempre il pensiero che “certo! sarebbe meglio se mettessero delle panchine per le persone che aspettano”. Del resto la vita è soprattutto attesa. Tanto vale stare comodi.
Anche la strada è sempre la stessa, con le sue buche e i suoi dossi...e il rumore prevedibile dei tombini calpestati dalle ruote che girano.
E girano.


Le persone sembrano voler dimenticare quanto sia fragile la vita.
La verità è che un uomo, un uomo qualsiasi, può spegnersi e affliggersi di fronte alla quotidianità, all'incessante e circolare ripetersi di azioni ed emozioni, al punto tale da svalutare lo stesso concetto di esistenza.
Alcuni ci riflettono, altri se ne vogliono dimenticare. E certamente quest’ultimo atteggiamento non è da biasimare, dal momento che tante menti geniali giunsero alla conclusione che la mancanza di consapevolezza può esorcizzare l’infelicità. Un po’  come accade negli animali.
Elizabeth conosceva bene queste filosofie, se ne appropriava e si perdeva nella loro indeterminatezza.
Percorreva vie che il reale avrebbe voluto precluderle.
Scrutava il mondo in cerca di sé. Passeggiava per strada e osservava le case, e delle case osservava le finestre, e tra tutte le finestre si soffermava su quelle con le luci accese, mentre con la mente cercava di immaginare quale vita stesse animando quelle stanze illuminate: quale famiglia stesse mangiando a tavola, quale donna stesse aspettando che il suo uomo tornasse dal lavoro, quale nonna stesse guardando le foto del suo defunto marito. In macchina si chiedeva dove corressero, dove andassero sempre tutte quelle scatole a quattro ruote, quali e quante vite trasportassero. E quando vedeva un autobus passare, il filo dei suoi pensieri si intrecciava a tal punto che nemmeno lei riusciva a trovarne un senso. Quante esistenze che si muovevano dentro un unico mezzo di trasporto, quanti bambini andavano a scuola, quante madri a fare la spesa, quanti uomini a lavoro e quanti giovani all'università, con il quaderno degli appunti in mano e la tracolla sulla spalla. Cosa muoveva tutte quelle vite umane? Dove andavano, cosa cercavano tutti, incessantemente? Cosa li spingeva a vivere consapevoli dell’insensatezza di vivere?
Poi un uomo.
Seduto su una panchina.
Un girasole in mano.
Arriva una donna.
Lo abbraccia.
Lo bacia.
Lui le porge il girasole.
Lei sorride, lo prende per mano.
Vanno via.
La luce dei lampioni sembra illuminare i loro volti.

Lì, in quel preciso istante… la vita scrive la sua più segreta poesia.

Andava a scuola come tutti i ragazzi della sua età. Inseguiva sogni, come tutti. Amava, come tutti.
E nel frattempo sperava di riuscire un giorno a sfuggire dall'ombra opprimente dell’anonimato, della mediocrità, dell’abitudine.
Così fuggì, fuggì dal piccolo mondo in cui era nata e cresciuta.

Fuggì nella grande città.

martedì 19 novembre 2013

Preghiera

Se potessi prostrarmi ai piedi
dell'universale creatore
una sola preghiera alzerei:
che'l mondo, nella sua interezza,
diventasse tempio sacro
dell'anima umana e del cuore.
Che l'indegno macigno dell'uomo,
chiamato materia,
marcisse dinnanzi al
levarsi della primavera,
trionfo ancestrale di spirito e vita.
Professo la fede dell'uomo novello
sdegnoso dell'ombra del grattacielo
incurante del tuono rombante
che scuote la terra ormai grigia.

sabato 12 ottobre 2013

Sala d'aspetto

Il tedio. Quella cosa che ci fa credere che aspettare di vivere sia meglio che vivere davvero.
Aspettare.
Ma che cos'è aspettare?

Salvador Dalì. La Persistenza della Memoria

E' un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un desiderio. In inglese il verbo "to wait" è accompagnato dalla preposizione "for". Waiting for: letteralmente "aspettare per". "Per" colmare un desiderio, una mancanza.
L'attesa è la necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio. La notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono inesorabili a fagocitare un altro giro. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.

Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò che accade mentre noi continuiamo imperterriti ad aspettare.

martedì 17 settembre 2013

Patior

In un deserto d'apatia non c'è luce
che sveli al cuore mio l'enigma nero
piantato nei tuoi occhi come una croce
tra falsità impietose e briciole di vero.

Non più parole solo silenzi stanchi
nel vuoto urlato d'un tempo già sospeso:
solo ricordi dei tuoi migliori anni
a riscaldare uno spirito indifeso.

Gridasti al vento d'esser folle d'amore
e il mare accolse le pene del rifiuto,
ma non c'è pace per un fresco dolore

seppure preghi per ottenere aiuto.
Ora negli occhi soltanto quell'orrore
che rese il battito del cuore un suono muto.

Aristotele

Consegniamo la nostra vita nelle mani degli altri. Come se la felicità fosse un qualcosa di estrinseco, di alieno, indipendente da noi e dalla nostra volontà. Ma come tutte le cose che appartengono alla nostra natura e la caratterizzano, la felicità è ontologica, determina la nostra essenza, il nostro spirito. E' una scintilla dell'anima, un motore del nostro intimo e personale universo.
E' una scelta che determina la nostra esistenza.
Soltanto quando l'Io realizza compiutamente sé stesso, è in grado di porsi in relazione con l'altro, con il Tu, senza perdere la propria identità.

Conoscere sé stessi ed essere consapevoli che l'attuazione (il passaggio dalla potenza all'atto) della nostra felicità è frutto delle nostre e non delle altrui scelte: questo è realizzarsi veramente.

Raffaello Sanzio. La Scuola di Atene